182
Patriarchi e profeti
protezione, Giacobbe si gettò a terra profondamente angosciato. Era
mezzanotte. Tutto ciò che aveva reso la sua vita felice era esposto
al pericolo e alla morte e soprattutto lo amareggiava il pensiero che
quegli esseri innocenti dovessero affrontare un tale pericolo a causa
di un suo errore. Presentò la sua preghiera a Dio con lacrime agli
occhi e grida soffocate. All’improvviso una mano robusta lo afferrò:
Giacobbe pensò subito che un nemico volesse ucciderlo e cercò di
liberarsi dalla presa dell’assalitore. I due uomini lottarono nel buio e
in silenzio. Giacobbe s’impegnò con tutte le sue forze, senza fermarsi
neanche un momento. Mentre lottava per sopravvivere, un profondo
senso di colpa oppresse il suo animo: gli tornarono in mente gli
[163]
errori commessi. Essi lo separavano da Dio come una barriera. In
quella terribile situazione si ricordò delle promesse divine e con
tutto il cuore invocò il perdono. Lo scontro continuò quasi fino
all’alba, quando lo straniero toccò l’anca di Giacobbe, provocandone
la slogatura. Allora il patriarca riconobbe il suo antagonista: aveva
lottato con un messaggero divino. Comprese perché, nonostante lo
sforzo quasi sovrumano, non fosse riuscito a vincere. Colui che si era
rivelato a Giacobbe era il Cristo, l’Angelo del patto. Il patriarca, pur
sentendosi debole e provando un dolore acuto, non voleva lasciarlo
andare. Pentito e prostrato, gli si aggrappò, “... pianse e lo supplicò...”
(
Osea 12:5
), invocando la sua benedizione. Nonostante l’intensa
sofferenza fisica, voleva avere la certezza che il suo errore fosse
stato perdonato. La sua volontà si rafforzò, la sua fede divenne più
profonda e salda: così, egli resistette fino alla fine. L’Angelo cercò
di liberarsi, ordinando: “... Lasciami andare, ché spunta l’alba”. Ma
Giacobbe rispose: “... Non ti lascerò andare prima che tu m’abbia
benedetto!” (
Genesi 32:26
). Se questa dichiarazione fosse stata
suggerita dall’arroganza, Giacobbe avrebbe perso subito la vita. In
realtà la sua richiesta era una prova della consapevolezza della sua
indegnità, della sua fiducia nell’autenticità del patto stabilito da Dio.
Giacobbe “... lottò con l’angelo, e restò vincitore...” (
Osea 12:5
).
Grazie all’umiliazione, al pentimento e all’abbandono del proprio
orgoglio, questo essere mortale, anche se colpevole e disorientato,
prevalse sulla Maestà del cielo. Egli aveva afferrato, tremante, le
promesse di quel Dio che non poteva negare il suo amore infinito a
un peccatore pentito.
Giacobbe era perfettamente consapevole dell’errore commesso: