Pagina 233 - Patriarchi e profeti (1998)

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Mosè
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nazione fu tollerata, in considerazione della sua alta posizione e del
favore di cui godeva presso il re e presso il popolo. “Per fede Mosè,
divenuto grande, rifiutò d’esser chiamato figliuolo della figliuola di
Faraone, scegliendo piuttosto d’esser maltrattato col popolo di Dio,
che di godere per breve tempo i piaceri del peccato; stimando egli il
vituperio di Cristo ricchezza maggiore de’ tesori d’Egitto, perché
riguardava alla rimunerazione” (
Ebrei 11:24-26
). Mosè era degno di
assumere il dominio tra i grandi della terra, di avere il primato alla
corte del regno allora più potente e impugnarne con onore lo scettro.
La sua preparazione intellettuale lo distinse tra i grandi uomini di
tutti i tempi; come storico, poeta, filosofo, generale, legislatore, non
aveva rivali. Tuttavia, benché avesse il mondo in suo potere, egli
ebbe la forza morale di rifiutare le seducenti prospettive di ricchez-
za, grandezza e fama, “scegliendo piuttosto di esser maltrattato col
popolo di Dio, che di godere per breve tempo i piaceri del peccato”.
Mosè sapeva quale sarebbe stata la ricompensa riservata a chi avesse
servito Dio con umiltà e ubbidienza: tutta la gloria che il mondo
gli offriva fu oscurata da questa promessa. Il magnifico palazzo del
faraone e il suo trono rappresentavano certo un potente richiamo,
ma egli sapeva che in quella corte fastosa avrebbe dovuto affrontare
delle tentazioni che potevano allontanare dalla sua mente il pensiero
di Dio.
Mosè seppe guardare al di là del magnifico palazzo e del regno,
per intravedere gli alti onori che un giorno sarebbero stati riservati
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alle persone fedeli a Dio, in un regno in cui il male non sarebbe più
esistito. Ispirato dalla fede, vide la corona eterna che il Re dei cieli
avrebbe deposto sulla fronte di coloro che avrebbero vinto la lotta
contro il peccato. Questa fede lo indusse ad abbandonare i potenti
per unirsi a un popolo umile, povero e disprezzato, che aveva scelto
di ubbidire a Dio piuttosto che essere partecipe del male. La sua
permanenza presso il faraone si protrasse fino all’età di quarant’anni.
Pensava spesso alle tristi condizioni del popolo d’Israele: visitava i
suoi fratelli schiavi e li incoraggiava, assicurando loro che presto Dio
li avrebbe liberati. Spesso l’ingiustizia e l’oppressione di cui erano
vittime provocavano in lui un sentimento di rancore che avrebbe
voluto soddisfare con la vendetta. Un giorno, mentre era immerso
in queste riflessioni, vide un egiziano che picchiava un ebreo: lo
aggredì e lo uccise. Solo l’israelita era stato testimone di questa sua